Secondo giorno. 28 luglio 2007. Fra le tante, troppe foto che ritraggono la shoah ce n'è una che mi è sempre rimasta in mente: quella del cancello d'entrata di Auschwitz, con i due piloni portanti, la scritta "Arbeit Macht Frei" e il reticolato di cinta con le garitte e i riflettori puntati sulle baracche dei reclusi.
Sulla strada fra Cancun e Tulum, rivedo quell'immagine una, cinque, venti volte, sui cancelli d'ingresso dei resort che punteggiano le coste di questa parte di mondo.
Tanti piccoli e grandi lager dai nomi altisonanti dove non si entra per crepare, ma per divertirsi. Ce n'è per tutti i gusti. Il Capitan Lafitte, ispirato al celebre bucaniere, denuncia la sua vocazione corsara nel look dei pali della luce, tutti travestiti da alberi maestri. Il Mayakoba combina gigantismo e minimal-chic in un insieme che ricorda molto il cimitero di Lambrate. Il Barcelò accoglie gli ospiti con due mascheroni di Itzam Na, onnipotente dio Maya dalla faccia truce. Il Sirenis sembra un film di fantascienza utopistica stile Zardoz.
Nello spaziotempo fra un resort e l'altro, sembra di essere nel varesotto o nella bergamasca. È il regno incontrastato delle fabbrichette che contribuiscono alle magnifiche sorti e progressive dell'industria locale del turismo. Dal cementificio Cemex al supermercato dei laterizi Construrama, dal mobilificio Casa Latina al tubificio Sonotubo, è tutto un inno al desarrollo local. A un certo punto, l'aria di Padania si fa palpabile: fra le varie insegne scorgo anche quella della BTicino. Viva la globalizzazione, mi dico. Ma mentre l'autobus si insinua fra le stradine di Playa Del Carmen, comincio a chiedermi dove si nasconda il paradiso tropicale che cerchiamo.
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