29 luglio. Terzo giorno.
Il nostro tassista si chiama Rafael. È un omone corpulento sulla cinquantina. Ha la fronte bassa, gli occhi piccoli e ravvicinati dei Maya purosangue e un bel paio di mustacchi molto Tex-Mex. Nonostante i 34 gradi umidi dell'estate di qui, è perfettamente all'altezza del suo ruolo di anfitrione improvvisato: camicia bianca immacolata senza una chiazza di sudore, pantaloni e scarpe nere perfettamente in ordine, capelli sfavillanti di brillantina, e una gran voglia di chiacchierare.
Ci racconta che Tulum è appena diventata municipio, cioè provincia, e che questo porterà nelle casse locali un bel po' di dindi, belli e pronti da investire in strutture turistiche: l'Aereoporto, gli immancabili alberghi di lusso, i negozi, gli shopping mall e tutto il resto. "Un po' come Playa Del Carmen", sogghigna.
Peccato, penso io, guardando fuori dal finestrino mentre la giungla bassa e fitta della biosfera di Sian Kaan ci avvolge in un abbraccio da grande mamma cosmica. A Tulum ci siamo fermati poco, giusto il tempo di dare una sbirciata alle rovine, fare un puccio nel Mar dei Caraibi e scoprire che la Lonely Planet, in fatto di alberghi fresh & clean, non sempre ci azzecca. Vedere, per credere, l'hotel Acuario.
Però, di cose da dire, ce ne sarebbero eccome. Nel bene e nel male. Perché Tulum ribadisce a ogni passo, casomai ce ne fosse bisogno, che il Messico è una terra dove il sublime e l'orrido vanno sempre a braccetto.
Per dire: le rovine. Dentro il perimetro delle mura, c'è un piccolo gioiello di architettura spirituale. Qui, come a Palenque o a Tikal, capisci al volo che i Maya non poggiavano neanche una pietra per caso. Dalla disposizione dei templi e degli edifici alla loro armonia quasi matematica, dal disegno delle mura massicce alla vista mozzafiato dell'oceano, tutto concorre a formare l'immagine mentale di un posto davvero speciale, un posto da difendere con le unghie e con i denti.
E il nemico, qui, è alle porte. Lo riconosci nelle tonnellate di cartacce, cicche e bottiglie disseminate intorno al sito. O all'insistenza con la quale gli aspiranti crocodile hunter locali inseguono le iguane fra i sassi e i cespugli. O ancora, dalla paraculaggine dei piazzisti di diving center in caccia di turisti da sacrificare al rito dello snorkeling. O di turiste single da circuire.
Eppure. Una volta ogni tot, il mare si incazza, e fa tabula rasa. Come dire: ricominciamo daccapo, che magari va meglio. È una minaccia sottile, che riconosci nei tavolini all'aperto, spesso e volentieri cementati al suolo. O dai cartelli che ti dicono dove nasconderti in caso di uragano. O dai turisti che non si sa mai, meglio fermarsi per poco, visto che è la stagione delle piogge. Proprio come noi.
Il mare, proprio lui. Questo mare così grande e grosso e azzurro e cazzuto che ora, lasciata Tulum alle spalle, finalmente ci circonda, cullandoci con la ninna nanna ipnotica di un mantra sempre uguale e sempre diverso.
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